Preparandosi e riflettendo prima di buttarci in un nuovo progetto con dei giovani, oggi su La Stampa leggiamo questo articolo che ci aiuta a farlo con profondità.
Da La Stampa del 18/9/2014
Autore: ALESSANDRO D'AVENIA
In prima superiore ho chiesto di portare i libri letti durante l’estate. Sul banco di una studentessa c’era «Colpa delle stelle», uno dei libri che ha infuocato le classifiche di libri e i cuori di molti ragazzi, anche grazie al film: una storia in cui due sedicenni per vivere il loro amore devono chiedere permesso alla morte.
Dimmi cosa leggi e ti dirò chi sei: è la scorciatoia per iniziare a leggere l’inedito che ogni ragazzo è e che, a 14 anni, non si manifesta scopertamente, ma attraverso scelte (musica, libri, film, serie tv) che troppo spesso bolliamo come «adolescenziali», come se l’adolescenza fosse una colpa e non una tappa necessaria a far fiorire la vita.
Ma perché per sentirsi raccontare l’amore i ragazzi scelgono di passare per il crogiolo del dolore? Vivono immersi in una cultura che nasconde il dolore e la morte (se non come spettacolo, che è un modo di occultarli). Esaurite le grandi narrazioni religiose e politiche, si trovano privi di codici simbolici capaci di dar senso alla realtà limite.
L’uomo è un essere narrativo e simbolico, interpretiamo e stiamo nella realtà attraverso le storie: le azioni umane cerchiamo di comprenderla alla luce di una narrazione (Chi è? Da dove viene? Dove va?). Alla Musa si chiedeva di raccontare dell’uomo multiforme, perché quell’uomo era la sintesi di ciò che a un uomo accade nella vita, persino di dare un’occhiata all’aldilà per farsi raccontare come finisce la storia.
Per poter vivere la vita in anticipo l’uomo si è arrangiato con le storie: gli scrittori sanno che i personaggi sono Io sperimentali per saggiare la realtà. La società di Omero aveva inventato un modo per superare la morte (il grande tema su cui ogni cultura è costretta a fondare se stessa): socializzarla attraverso la tomba e i racconti epici. La pietra e l’esametro epico (il verso dell’Iliade e dell’Odissea) garantiscono immortalità a un effimero che precipiterebbe nell’oblio, che è peggio della morte.
Le cose non sono cambiate. Ieri come oggi abbiamo bisogno di segni che codifichino e decodifichino la morte, permettendoci di guardarla senza rimanerne pietrificati: abbiamo bisogno, come Perseo, dello specchio dei racconti, dei simboli, per affrontare Medusa. Non si può guardare Medusa direttamente, va affrontata con lo scudo-specchio dell’invenzione culturale. Oggi la Musa canta in serie televisive, musica, libri, narrazioni che con coerenza gravitano attorno a temi evanescenti nell’educazione simbolica della nuova generazione.
A differenza della società omerica che scongiurava la morte con la memoria, oggi è l’amore che sembra avere le credenziali per sconfiggerla. Ma come può se non è per sempre? Gli adolescenti sanno che non si dichiara il proprio amore specificando la data di scadenza, ma dicendo: «Ti amerò per sempre». Per questo cercano storie che (as)saggino la verità di questa formula: «per sempre» è un’illusione linguistica o la necessaria conseguenza dell’essenza amorosa?
Quando lavoravo al film tratto da «Bianca come il latte rossa come il sangue», uno sponsor propose di cambiare il titolo, perché la parola sangue poteva spaventare il pubblico.
Mi feci una risata: proprio quella parola doveva rimanere, era come togliere il lupo dalla fiaba di Cappuccetto Rosso. I ragazzi di oggi leggono sui volti ora stanchi ora cinici della generazione che li cresce, la caduta di ogni sogno, sostituito dal morbido o liquido pragmatismo consumistico, e temono che la vita sia una promessa non mantenuta.
Ma sentono nel cuore e nella carne che la vita può essere grande e non è fatta per essere riempita di oggetti e botox, ma per essere spesa fino al sangue. Ma per chi o cosa? E come? Così mi spiego il successo delle saghe di Tolkien, Lewis, Rowling, Martin. L’epica, scacciata dalla porta del nostro cuore rimpicciolito, rientra dalla finestra della fantasia.
Le ragazze (soprattutto) leggono e guardano «Colpa delle stelle» perché vogliono sapere come si fa ad amare ed essere amate con il coraggio che sfida la morte. Vogliono mettere la testa dove il cuore ha intuito la verità e la morte rimane narrativamente (esistenzialmente) il modo più vero per chiamare le cose alla vita. Raymond Carver, scrittore e poeta minacciato dal cancro, sulla sua lapide fece scolpire i suoi versi: «E hai ottenuto quello che / volevi da questa vita, nonostante tutto? / Sì. / E cos’è che volevi? / Potermi dire amato, sentirmi / amato sulla terra». Quando morì aveva solo 50 anni e le parole che spesso un adolescente non riesce a trovare.
Scrivi commento